In questo scambio del 1959-1960 tra un lettore del rotocalco “Tempo” e il direttore Arturo Tofanelli sembrano confermarsi alcuni capisaldi del dibattito attuale: anzitutto di lingua si è sempre discusso e poi molte delle scelte linguistiche sono frutto di posizionamenti culturali più che di regole rigide e immutabili.
Dunque, anche secondo i vocabolari e le regole grammaticali dell’epoca, il femminile delle professioni esisteva, ed esiste da sempre: tanto il lettore quanto il direttore concordano, portando gli esempi che oggi fanno più discutere (avvocata, deputata…). Perché non si usavano allora? Secondo il direttore era colpa delle donne, che volevano essere uguali agli uomini e ambivano allo stesso titolo.
Oggi la situazione si è ribaltata, ma ovviamente anche il contesto culturale è mutato: se prima le donne per emergere dovevano dimostrare di essere come gli uomini, oggi emergono in quanto donne e, se non entrano in gioco altre questioni di identità di genere, possono farsi chiamare al femminile. “Avvocato” nel 1960 serviva per rivendicare di essere “brava come un uomo”, nel 2024 “avvocato” perché “brava come un uomo” è evidente e avvilente subalternità al maschio. Ma, come evidenzia anche questo confronto su un rotocalco, in questione c’è sempre stato l’uso, non l’esistenza del termine “avvocata”. E così di tutte le altre parole.
Insomma, tutto si può dire, ma non che “l’italiano corretto è solo maschile”, perché già nel 1960 i termini del dibattito erano evidenti: le regole sono chiare, il problema è culturale.