Un altro senso alla parola “pace”

Uno degli aspetti peggiori della congiuntura attuale è la completa distorsione della parola “pace”. Ci eravamo abituati a pensare che pace dovesse essere giusta e prospera e produrre mutuo benessere e riconciliazione. Così la tradizione cristiana ci ha educato a pensare: è del resto la pace evocata dai concetti di shalom/salam. Se ci pensiamo, quella che nel 1945 sembrava un’utopia, sei anni dopo diventava proprio questo: noi europei dimostravamo che il conflitto tra i popoli non è un dato acquisito e che dopo la guerra totale, le città rase al suolo e i campi di concentramento si poteva costruire qualcosa di diverso dalle tregue del passato (progetto che abbiamo applicato tra di noi, solo saltuariamente verso gli “altri”). I vincitori tendevano la mano ai vinti e gli sconfitti abbandonavano i propositi di riscatto. Perché in realtà il riscatto era comune a vincitori e vinti: “sortirne tutti insieme è politica” avrebbe detto un eroico prete. E infatti la pace vera è il trionfo della politica più alta.

Non a caso il progetto europeo e lo stesso concetto di politica alta, quella cioè che vuole cambiare il mondo e a volte ce la fa, sono invisi a quel coacervo di ambienti tossici che hanno riscritto il concetto di “pace”: i cosiddetti “geopolitici” con le loro regole eterne e rigide di funzionamento del mondo, le destre con l’esaltazione nazionalista dei loro particolarismi e i loro odii verso il diverso, i tecnocrati secondo cui tutto è mosso dal denaro e ad esso deve tendere. La convergenza di questi ambienti sta oggi a Washington, così come lo è stata almeno in parte nel 2017-2021. E da allora è un profluvio di annunci di “pace”. Ma che pace è? Come la “pax romana” è l’assenza di conflitto imposta con la forza contro la volontà dei “pacificati”.

È già successo, in realtà, tutto nel 2020: gli “Accordi di Abramo” – e l’annunciata “Pace del secolo”, per quanto non attuata all’epoca – erano la “pace” dei potenti (Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita) sui soggetti subalterni, i palestinesi. È stata una pace vera? Sappiamo cosa è successo e sta succedendo. Poi la “pace” nel Maghreb, con il riconoscimento americano della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, ancora una volta sulla pelle dei soggetti subalterni, i sahrawi. La “pace” comprendeva forniture di droni israeliani e accesso ai satelliti spia di Tel Aviv per colpire i sahrawi che non si arrendevano all’annessione e alla “pace” trumpiana. E poi la “pace” con i talebani, ossia con una singola fazione del variegato mondo afghano, non casualmente la parte più forte militarmente, con l’esclusione di tutti gli altri: le componenti etniche invise ai talebani, i partiti democratici, le organizzazioni femminili. Anche in questo caso sappiamo che cosa sta succedendo.

Tornato alla Casa Bianca, questo blocco di potere sta facendo come e in prospettiva peggio dell’altra volta. Per la “pace” in Medio Oriente si pensa di trasferire due milioni di persone in paesi loro estranei e trasformare la loro terra in resort turistici di lusso. Per la “pace” in Ucraina si propone una spartizione coloniale di territori e di risorse tra due imperialismi di estrema destra, sulla pelle delle comunità locali non interpellate e anzi esplicitamente derise. Un altro obiettivo è disarticolare il grande e duraturo successo europeo della pace tra i popoli, per riportare l’Europa al 1945: il classico divide et impera di ogni imperialismo, per controllare e assoggettare con maggiore facilità quegli scocciatori che pensano ancora (facendo molti errori, ma almeno ci provano) che con la politica si possa cambiare il mondo. E nel mondo orwelliano di Washington si accusano gli europei di volere la guerra, ma si chiede loro di alzare le spese militari per comprare armi americane per centinaia di miliardi di dollari. La “pace” sarebbe dunque il profitto dell’industria militare americana.

In verità nulla di tutto questo è pace ed è discutibile che la stampa continui a usare il termine per indicare le premesse di nuove sofferenze e di future guerre. Chissà se saremo in grado di contrapporre a questa cupa e violenta visione del mondo da ancien régime una progettualità politica che riporti al centro del concetto di “pace” i popoli invece dei potenti e dei miliardari.

Immagine generata da ChatGPT per rappresentare la “pace trumpiana”

Avvocata e deputata

In questo scambio del 1959-1960 tra un lettore del rotocalco “Tempo” e il direttore Arturo Tofanelli sembrano confermarsi alcuni capisaldi del dibattito attuale: anzitutto di lingua si è sempre discusso e poi molte delle scelte linguistiche sono frutto di posizionamenti culturali più che di regole rigide e immutabili.

Dunque, anche secondo i vocabolari e le regole grammaticali dell’epoca, il femminile delle professioni esisteva, ed esiste da sempre: tanto il lettore quanto il direttore concordano, portando gli esempi che oggi fanno più discutere (avvocata, deputata…). Perché non si usavano allora? Secondo il direttore era colpa delle donne, che volevano essere uguali agli uomini e ambivano allo stesso titolo.

Oggi la situazione si è ribaltata, ma ovviamente anche il contesto culturale è mutato: se prima le donne per emergere dovevano dimostrare di essere come gli uomini, oggi emergono in quanto donne e, se non entrano in gioco altre questioni di identità di genere, possono farsi chiamare al femminile. “Avvocato” nel 1960 serviva per rivendicare di essere “brava come un uomo”, nel 2024 “avvocato” perché “brava come un uomo” è evidente e avvilente subalternità al maschio. Ma, come evidenzia anche questo confronto su un rotocalco, in questione c’è sempre stato l’uso, non l’esistenza del termine “avvocata”. E così di tutte le altre parole.

Insomma, tutto si può dire, ma non che “l’italiano corretto è solo maschile”, perché già nel 1960 i termini del dibattito erano evidenti: le regole sono chiare, il problema è culturale.

Lettere al direttore, "Tempo", gennaio 1960
Lettere al direttore, “Tempo”, gennaio 1960

Come nasce un falso

Nel corso di una trasmissione televisiva elettorale, il 25 aprile 2023, il presidente turco Erdoğan si è sentito male: il programma è stato interrotto ed è calato il buio. Le note ufficiali della presidenza della Repubblica hanno parlato di un malore, dell’annullamento di alcuni impegni elettorali il giorno successivo e della conferma di quelli degli altri giorni. Lo stesso account Twitter del presidente manteneva una regolarità nella pubblicazione. Proprio su Twitter, però, il giorno dopo è montato un caso: alcuni account con nomi che sembravano di testate giornalistiche, a partire da una notizia proveniente dalla Cina, segnalavano che Erdoğan era stato ricoverato in ospedale e che le sue condizioni parevano gravi: la famiglia sarebbe stata poi chiamata al suo capezzale. Lette queste notizie, l’ex premier pakistano Imran Khan ha scritto un tweet di auguri a Erdoğan. Ancora: alcuni account hanno cominciato a diffondere l’ipotesi che il presidente fosse stato avvelenato da agenti russi. Negli stessi minuti, mentre gli account Twitter incentrati sulla guerra in Ucraina mostravano uno strano movimento di auto nei pressi del Cremlino, non è stato difficile per i commentatori fare due più due: sicuramente il presidente Putin si stava recando in ufficio per affrontare l’emergenza della morte del leader turco. Nel mondo Twitter italiano diversi utenti cominciavano a chiedersi perché i giornali italiani stessero ignorando la notizia e che interesse avessero a nasconderla agli italiani. Ordini della Nato, organizzazione di cui la Turchia è un membro importante?

 

Sguardo dello storico

In realtà anche i giornali internazionali ignoravano quella che semplicemente non era una notizia. Perché effettivamente nessuna di queste ipotesi era verificabile, né veritiera. Non si sa chi abbia cominciato a diffondere la falsa notizia, come spesso accade in questi episodi. I cambiamenti di Twitter nella politica del “bollino blu” che attesta la verificabilità degli account hanno fatto il resto: sconosciuti soggetti e improbabili testate giornalistiche sono diventati “verificati” da Twitter e hanno acquisito, agli occhi degli utenti più sprovveduti, l’autorevolezza del New York Times o del Guardian. Certo è che molti di questi elementi non stavano in piedi: anzitutto, il mondo dell’informazione e della politica turche (anche sul versante dell’opposizione) non stava seguendo la vicenda e non ne faceva menzione. Sembra poi improbabile l’intervento di agenti russi: se è vero che Erdoğan non è stato sempre amichevole con Putin, è stato tuttavia l’unico interlocutore di rilievo che abbia avuto tra i paesi della Nato nel corso della guerra russo-ucraina. Altrettanto improbabile la “corsa” di Putin al Cremlino: sempre ammesso che la morte di Erdoğan rappresentasse davvero un allarme per la Russia, Putin ha governato i diversi momenti delle crisi che ha affrontato anche dall’ufficio della sua residenza o da remoto, senza bisogno di spettacolari trasferimenti pubblici davanti agli occhi indiscreti dei suoi concittadini e dei servizi occidentali.

Perché la falsa notizia, originatasi in realtà da un vero malore di Erdoğan e dall’opacità informativa delle autorità turche, si sia diffusa così rapidamente e in modo esteso è come sempre un mistero: si può spiegare come un diffuso stato d’animo, un desiderio collettivo di diversi spezzoni dell’opinione pubblica soprattutto occidentale di liberarsi del leader turco, a vent’anni dalla sua prima presa del potere. È bastato che a raccontare la “notizia” fosse qualcuno con parvenza autorevole per convincere che fosse vera: era in fondo ciò che ci si attendeva da tempo. La moltiplicazione sui social ha fatto il resto: il fatto stesso che migliaia di utenti segnalassero che “secondo alcune voci” o “secondo i rumors” Erdoğan fosse in fin di vita rendeva la notizia attendibile. Lo dicono ormai tutti, quindi sarà vero.

Sembra il fenomeno, aggiornato, delle false notizie di guerra descritte da Marc Bloch: poiché i giornali durante il conflitto mondiale erano sottoposti a censura, i soldati non vi credevano e si affidavano perlopiù alla trasmissione di informazioni a voce, rinverdendo un’antica tradizione orale. Anche in questo caso, gli organi di stampa ufficiali sono considerati, non solo dagli ambienti cospirazionisti più esaltati, manchevoli di obiettività e di libertà – perché controllati da un regime planetario che vuole nascondere la verità al popolo o semplicemente perché rispondenti a interessi altri da quelli di informare, – perciò ci si affida a informazioni provenienti da sconosciuti account di Twitter, che acquisiscono prestigio proprio perché dicono cose diverse dalla stampa mondiale di qualsiasi paese o orientamento, indistintamente ritenuta corrotta.